E’ il primo organo di senso che si sviluppa fin dal ventre materno. L’organo più pesante ed esteso che contiene e ricopre il nostro corpo. Respira, traspira, secerne e stimola la respirazione, la circolazione, la digestione, l’escrezione e la riproduzione ed è difesa dell’organismo.
La pelle rappresenta lo specchio del nostro mondo interno, è ciò che appare in superficie, il biglietto da visita con cui ci presentiamo al mondo e struttura la relazione con l’Altro da Sé. Essa racconta di noi: chi siamo, dove viviamo, che lavoro facciamo, se stiamo bene fisicamente e psicologicamente. La pelle è dunque confine esterno di noi stessi e, al contempo strumento di comunicazione poiché attraverso l'epidermide, lo strato dermico più superficiale, il nostro organismo sente, accoglie, sperimenta, entra in contatto con l'altro e l'ambiente ed esprime emozioni ed affettività, in uno scambio con la realtà esterna costante ed imprescindibile. In questi termini è un organo psicosomatico come manifestazione tangibile dell’unità arcaica corpo-mente, che vede la cute unico tessuto evidente dall'esterno che può far apparire uno stato emotivo. La pelle, quindi, richiama il passato e parla della propria realtà fatta di due mondi paralleli: quello costituito dalla nostra comunicazione interna e quello costituito dalla nostra comunicazione esterna. Due mondi collegati attraverso la pelle che rappresenta, scientificamente, la memoria tattile-emotiva che non è inclusa nel linguaggio verbale ed esiste ben prima della nostra capacità di razionalizzazione.
Durante questi anni di lavoro creativo e libero dell'arte ho avuto la possibilità di sperimentare a fondo le tematiche e i significati legati alla pelle, grazie anche alle ricerche di studiosi come Winnicott o Anzieu che si sono dedicati al rapporto pelle-psiche. Ancor di più lo psicoanalista francese Anzieu si è dedicato in particolar modo a questo tipo d’analisi tanto da introdurre il fascinoso concetto di "Io-Pelle".
Secondo Anzieu è una rappresentazione di cui si serve l’Io del bambino, durante le fasi precoci dello sviluppo, per rappresentare se stesso come Io che contiene i contenuti psichici, a partire dalla propria esperienza della superficie del corpo. Sono relazioni tattili che si instaurano già nello spazio uterino: il bambino ha già fatto esperienze sensoriali nel grembo materno e la sua sopravvivenza è legata al bisogno di ricevere cure, ma deve anche esplorare l’ambiente che lo circonda per attivare il suo sviluppo senso-motorio. Se lo spazio materno non è stimolante o se il bambino non riesce ad inserirsi in tale scambio, si possono definire esperienze di tipo traumatico che possono essere passeggere o diventare patologiche se la non-risposta dell’ambiente persiste. L’Io-pelle così interpretato è un’istanza di contenimento, che impedisce il flusso incontrollato di energia, delimita il mondo percettivo esterno dal mondo psichico interno, proteggendolo da uno straripamento traumatico. L’Io- pelle è quindi in contatto sia con il mondo esterno che con il mondo interno, separandoli: è anzitutto un’entità corporea, non è soltanto un’entità superficiale.
Da questi presupposti ho cercato di scandagliare nel mio bagaglio esistenziale la mia esperienza di pelle. Credo che quel contenimento materno sia stato soppiantato molto presto da un altro tipo di contenitore, l’abbraccio costante dei miei nonni materni, soprattutto di nonna Rosa. Ricordo bene i miei primi quattro anni di vita passati nella loro casa, cresciuta tra il loro affetto e tanti stimoli di ogni genere: dagli odori della cucina, alle scale sulle quali mi arrampicavo, lo specchio con cui giocavo o qualunque altro oggetto che trovavo in giro e portavo in terrazza.
Mio nonno era un carrozziere di prima classe, brontolone e un’amante della pittura. Si chiamava come me, odorava di dopo barba e camice inverniciato che portava con orgoglio, sia quando dipingeva barche e gabbiani ridenti e sia quando me lo faceva indossare per fargli da garzone. Mia nonna era una casalinga modello, era la regina amata della casa e profumava come il suo nome, di rosa fresca di primo maggio, così pregnante anche quando non era in casa. Sono stati i miei primi amori quelli che non dimentichi mai e che quando sono andati via in quel “per sempre” ho provato una sensazione strana “a pelle”. Soprattutto quando ho saputo che la loro casa doveva essere venduta: mi sentivo denudata, spogliata di tutto quello che aveva consolidato la mia infanzia. A volte sogno ancora di camminare nel corridoio, tra quelle stanze che ho sempre percorso sin da da bambina, con lo specchietto che nonna utilizzava per pettinarsi: lo mettevo sotto gli occhi e mi pareva di vivere un ambiente al contrario fatto di ostacoli da superare e che mi portava su in mansarda per volare verso il cielo.
Un giorno rovistando tra i cassetti ho trovato della carta modello con su scritto il mio nome: era la calligrafia di nonna e aveva appuntato tutte le misure per farmi un vestito per il mio quinto compleanno. E’ l’unico vestito che mia madre ha conservato tra i tanti che la nonna sarta mi aveva confezionato. Chissà perché solo quel vestito di bambina è rimasto intatto nel mio armadio. Così quando mi sono trasferita a Milano ho portato con me questo tesoro, mentre la casa dei nonni smetteva di appartenermi per sempre. Ero davvero nuda, senza una protezione e direi addirittura “senza pelle” e quei reperti erano l’unica cosa che potevano almeno all'idea coprirmi dal freddo di questa perdita.
Mi è servito analizzare questa esperienza perché è da qui che nasce un'opera d'arte tessile, da queste costanti: casa, vestito, pelle. In qualche modo quel vestito rappresentava quel contenitore, ovvero la casa dei miei ricordi e dei miei traguardi, ma non è più indossabile. Così ho pensato di costruire una “seconda pelle” a partire da quello stesso tipo di vestito. D'altronde il vestito è metaforicamente una seconda pelle:
<< veste il corpo, lo copre, lo ripara dal freddo e dal caldo nonché da sguardi curiosi e indiscreti, lo decora, lo abbellisce; [...] a dimostrare appartenenze, a indicare condizioni sociali e scelte di vita>>
(L’abito veste e traveste, cfr. Il filo del pensiero, F.Rigotti)
Da questo ultimo punto mi sono chiesta come potevo rendere un vestito su misura come una casa e mi è affiorata alla mente un altro gioco che facevo da bambina a casa dei nonni: prendevo metri di stoffa che, nonna si preservava per cucire e per sua sfortuna, usavo per costruire tende da campeggio molto simili a quelle degli indiani d’America. L’abitazione tipica indiana è una tenda conica, oggi chiamata usualmente tipi, una parola Sioux composta da ti “abitare” e pi che sta per “usato per viverci dentro”. Particolarmente adatta per la vita nomade: la tenda è composta dai pali disposti in forma conica rivestiti in principio di pelli animale cuciti e poi da tela di cotone; può essere tirato su da una sola persona, velocemente montato e smontato; la sua pianta può arrivare ad un massimo di 6 metri di larghezza; differisce dalle altre tende perché ha delle alette in alto come falde che aiutano la fuoriuscita del fumo dal fuoco. Il vantaggio principale del tipi è che all'interno è possibile accendere e tenere il fuoco. L’interno della tenda è piuttosto ben ventilato grazie alle falde per il fumo che regolavano la circolazione dell’aria. Resiste alle piogge battenti e ai frequenti uragani. E’ interessante sapere che la sostituzione della pelle con la tela, permette la produzione dei tipi più facilmente e così anche le cuciture; è più leggero, più luminoso e dura di più.
La forma e inclinazione del cono non è regolare come potrebbe sembrare: il centro del cerchio non è verso l’esterno dove sporgono le alette e la distanza di questo punto determina il diametro del tipi, avente così una piante ovale. Il cono di tela con la parte anteriore più inclinata e la parte posteriore più ripida si definisce una caratteristica con dei vantaggi pratici, protegge infatti dalla potenza dei venti.
Essendo un’abitazione vissuta, è usuale che i tipi vengano addobbati: rosette di perline o di aculei di porcospino, strisce di pelle ricamati. Questi addobbi sono connessi con il mondo spirituale attraverso le visioni e i sogni. Si credeva infatti che la porta d’ingresso doveva essere sempre chiusa per proteggere l’integrità della tribù dagli spiriti maligni e per questo hanno una struttura ben precisa oppure semplicemente una tela sovrapposta sulla tenda.
Questa tenda mi è sembrata perfetta per ricreare quell'intimità del focolare domestico, che ho avuto la fortuna di vivere sin dalla nascita nella casa dei nonni. Secondo Bachelard nel suo saggio La terra e il riposo nella casa del ricordo, il mondo reale svanisce di colpo: è la casa natale, casa di assoluta intimità, lontana e perduta che è divenuta un ricordo e prende nuova forma nella casa onirica. E’, infatti, l’immagine archetipica più evocata facilmente nei sogni. Quando si è presi dal sogno si ha l'impressione di abitare un'immagine, legata ai ricordi di infanzia che sono fusi e distribuiti dentro di noi: possono essere una stanza, un corridoio, come dei frammenti sparsi internamente. Immagini superstiti e metaforiche che prendono vita dalla casa natale, la quale se determina buoni ricordi in noi simili, produce fondamenta solide e risponde a delle aspirazioni inconsce più profonde e intime del semplice bisogno di protezione, del calore originario, la prima luce protetta.
La casa del ricordo, come casa natale, è costruita sulla cripta della casa onirica in cui si trovano la radice, l'affetto, la profondità, l’immersione dei sogni. Invece di ricordare ciò che è stato, sogniamo ciò che avrebbe dovuto essere. Abbiamo bisogno di una casa del riposo, semplice, tranquilla e isolata: in questo senso ha una dimensione arcaica e si lega a quel tema dialettico del nomade e dell'autoctono, la differenza tra il castello e la capanna: la prima inconsistente mentre la seconda con delle radici. Se il sogno riesce ad andare lontano, nelle nostre profondità vuol dire che la casa è esempio di buone radici, attraverso la metafora del corridoio.
La casa natale ci coinvolge fin dalla più lontana infanzia: è testimonianza di una protezione più remota, da dove dovrebbe derivare il senso del ricovero, quel senso della capanna come rifugio. Ecco che nasce la mia “Tipi di rosa”, in onore di quell'amore unico e universale allo stesso tempo, che mi ha contenuto fisicamente ed emotivamente, rifacendomi a quel filo di cotone rosa che mia nonna utilizzava per imbastire i suoi lavori sartoriali, e con il quale ha imbastito l’inizio della mia storia attraverso momenti di cura e di affetto ricamati nella mia mente e sulla pelle.
Ho scelto di imbastire il vestito-tipi affinché possa modificarsi nel tempo come si modifica il mio corpo e di ricamare come su una pergamena di tela un testo che si può ampliare: è lo strumento attraverso cui esprimere il pensiero nella duplice valenza della parola scritta (il significato e la forma) in una composizione lenta e precisa, fatta di linee verticali e orizzontali, rosa su bianco. Il testo è così sdoppiato: da un lato c’è il segno leggibile, dall'altro il suo negativo, che si presenta come un linguaggio indecifrabile che solo io dall'interno della tenda posso vedere, come un codice segreto inciso.
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